Pubblicato da Marziana il 1 giugno 2009
Il Prof. Sgritta ha condotto per conto della ONLUS Fondazione Luigi di Liegro uno studio sul fenomeno delle badanti, riporto di seguito la relazione pubblicata in internet che potete trovare anche sul sito della onlus.
Lo studio mi ha fortemente sopresa, non certamente per il fenomeno che è a tutti noto; ma in quanto dalla ricerca emerge che si tratta di un avvenimento prevalentemente italiano che investe in misura minore gli altri paesi a sud dell’europa quali Spagna, Grecia e Portogallo e pare sconosciuto se non irrilevante nel centro e nord europa.
“Badanti e Anziani in un welfare senza futuro”
Una ricerca sul mondo dell’assistenza agli anziani nella Provincia di RomaLa badante è un fenomeno tutto italiano. Cosa ha prodotto? A chi è utile? Sicuramente alle famiglie, ma anche allo Stato: solleva infatti le famiglie da compiti sempre più difficili e permette allo Stato di lasciare le cose come stanno, scaricando sulle spalle in primo luogo delle donne la responsabilità di curare e assistere minori e anziani.
L’allungamento della speranza di vita e il declino delle nascite hanno alimentato il processo di invecchiamento del nostro Paese. Le badanti rappresentano la risposta spontanea, privata, a queste esigenze; suppliscono alle inadempienze della politica e all’indebolimento delle famiglie e delle reti di aiuto familiare.
La ricerca – condotta sul territorio della città e della provincia di Roma svolta da un gruppo di ricercatori coordinati da Giovanni B. Sgritta, docente di sociologia, direttore del Dipartimento di Scienze demografiche dell’Università di Roma “La Sapienza” e presidente del Consiglio scientifico della Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro – si basa sui dati raccolti da 200 storie di vita o interviste in profondità rivolte a “badanti” di Roma e provincia, realizzate tra il 2007 e il 2008.
Il volume, pubblicato da Edizioni Lavoro, è diviso in due parti. La prima prende in esame il fenomeno delle badanti nel quadro dei grandi processi che caratterizzano la società italiana: il “familismo” del nostro sistema di welfare, la condizione della donna, l’invecchiamento della popolazione, l’immigrazione.
La seconda riporta invece le analisi e le riflessioni sui risultati delle interviste soffermandosi in particolare sui seguenti aspetti: i fattori che hanno spinto le badanti a lasciare il loro paese e le loro famiglie, l’esperienza spesso traumatica del viaggio, l’impatto con la realtà di un luogo estraneo, l’inserimento in un lavoro di cura ed assistenza; quindi, il rapporto con l’anziano assistito ed i suoi familiari, spazi e tempi della giornata della badante, i rapporti con gli italiani e con i connazionali; infine, i legami con i propri familiari restati nel paese d’origine e i progetti futuri.
In breve: la prima parte analizza la figura della badante, il fenomeno del “badantato”, in termini “oggettivi”, partendo dal presupposto che si tratta di un fenomeno del tutto nuovo. Vecchie, se mai, sono le mansioni svolte dalla badante: la cura e l’assistenza costante di una persona non autonoma, dipendente, compiti che in passato erano affidati esclusivamente ai familiari dell’assistito; la figura (sociale, sociologica, economica, culturale anche) invece è affatto recente. Intanto non esiste ovunque; non c’è traccia (statisticamente apprezzabile) di questo fenomeno nei paesi del Centro e Nord Europa. Ed è invece più o meno diffusa nei paesi dell’area mediterranea: Italia in testa, quindi Spagna, Grecia e Portogallo. Per dire: se si vanno a vedere le stime ufficiali della presenza degli immigrati romeni all’estero nel 2005, è agevole constatare che esse sono in quest’ordine: 249.000 in Italia, 175.000 in Spagna, 29.000 in Grecia e 11.000 in Portogallo. Ed è noto che la componente romena è particolarmente presente nel lavoro familiare (domestico e soprattutto di cura). La novità del “badantato” è che in questa attività si presentano inestricabilmente congiunte due figure socialmente e logicamente distinte: quella definita dagli obblighi familiari (tipica dei rapporti di sangue e di parentela: mogli, madri, figlie; tutti soggetti al femminile) e quella definita dal rapporto contrattuale di lavoro. Nella figura della badante queste due logiche si fondono e si confondono. Ed è questo che rende particolarmente intrigante lo studio del fenomeno. Se questo è vero, bisogna chiedersi perché? Perché la badante è presente in alcuni paesi e non altrove? Perché al Sud e non al Nord? Che ruolo svolge nell’assetto politico sociale di questi paesi? E’ una risposta individuale, ancorché statisticamente numerosa, o è una risposta collettiva? C’entra qualcosa il sistema di welfare di questi paesi, che guarda caso ha caratteristiche alquanto simili?
La seconda parte studia invece il fenomeno delle badanti dal punto di vista delle sue protagoniste e dei suoi protagonisti (gli anziani), cioè soggettivamente. Lo fa attraverso i racconti delle donne intervistate, delle loro storie di vita, che riepilogano l’esperienza compiuta dalla partenza dal paese di provenienza fino agli aspetti più minuti della loro vita con l’anziano assistito e con i familiari dell’anziano. Questa seconda parte non entra in conflitto con la prima; se mai, la completa, la integra. Non ci si può aspettare che gli attori in gioco capiscano fino in fondo la loro parte. Alcune lo fanno, si rendono perfettamente conto di quale sia il loro ruolo e parlano di “sfruttamento”; la maggior parte, si limita invece ad assumere questa esperienza come un pezzo della loro storia di vita, probabilmente destinato a terminare con il ritorno al luogo d’origine. Ma le narrazioni hanno un fascino particolare. In genere, le ricerche non prendono in esame l’esperienza soggettiva delle donne che sono occupate in queste attività di cura, né si occupano dei tempi e degli spazi in cui trascorrono la loro giornata di lavoro, o dei rapporti con i familiari dell’assistito. Ne escono elementi interessanti, che permettono di comprendere meglio e di precisare alcune delle conclusioni tratte dall’analisi condotta nella prima parte del rapporto di ricerca.L’indagine è stata effettuata grazie ad un contributo della Fondazione Roma alla Fondazione Internazionale Don Luigi Di Liegro, onlus.
Giovanni B. Sgritta, docente di sociologia presso la Facoltà di Scienze Statistiche dell’Università “La Sapienza” di Roma. Membro della Commissione d’indagine sull’esclusione sociale, è autore di studi e ricerche sulle politiche sociali, la condizione anziana, la famiglia e le generazioni. E’ Presidente del Comitato Scientifico della Fondazione internazionale Don Luigi Di Liegro – onlus.
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www.fondazionediliegro.itBadanti e Anziani in un welfare senza futuro
Giovanni B. Sgritta Edizioni Lavoro
Prima parte: lo scenario
La caratteristica principale dei sistemi di welfare a base “familista” (essenzialmente, Italia, Spagna, Grecia e Portogallo) è che il compito di soddisfare i principali bisogni individuali è sostanzialmente affidato alla famiglia; lo Stato gioca un ruolo relativamente marginale, di intervento di ultima istanza: solo quando la famiglia e il mercato privato falliscono intervengono le istituzioni sociali, e anche allora solo temporaneamente. Nei paesi del Nord e del Centro-Europa le cose stanno diversamente: quelle responsabilità sono ampiamente condivise dalla collettività, sostenute da programmi politico-sociali, da trasferimenti e servizi rivolti agli individui e alle famiglie. In breve: i paesi del Sud-Europa sono caratterizzati da un tessuto familiare “forte” e da responsabilità sociali “deboli”; gli altri, viceversa, da un sostegno sociale “forte” e reti familiari “deboli”. Il modello sociale a base familista ha sostanzialmente tenuto nei tre decenni successivi al secondo dopoguerra, ma è entrato definitivamente in crisi a partire dagli ultimi decenni del secolo scorso. Le ragioni della crisi sono da imputare in particolare alla crescita dei livelli di istruzione della donna e alla spinta che ne derivava ad entrare nel mercato del lavoro; la conseguenza di questi processi (sacrosanti) è stata un progressivo indebolimento delle reti familiari e un depauperamento delle risorse destinabili ai compiti familiari di cura e assistenza. È accaduto ovunque in Europa, ma mentre altrove questi processi sono stati accompagnati da adeguate politiche di sostegno ai carichi familiari, i paesi meridionali hanno continuato a fare affidamento malgré tout sulle residue capacità delle famiglie di continuare a svolgere le loro funzioni tradizionali di riproduzione e produzione. Non a caso, in questi paesi che oggi è particolarmente depressa sia la fecondità sia la formazione della famiglia e più accentuato l’invecchiamento demografico. Meno figli, più anziani; una popolazione fortemente invecchiata, anche per effetto dell’allungamento della durata della vita, con l’inevitabile corollario della crescita degli anni vissuti in cattive condizioni di salute.
Qualche dato: gli over-80 erano circa 1 milione nel 1971 (2% della popolazione totale); a fine secolo erano 2,2 milioni (4%). Raddoppieranno ulteriormente nel 2020 (4,4 milioni e 8% della popolazione) e raggiungeranno i 6 milioni nel 2040 (11%). Al crescere dell’età, aumentano gli anziani colpiti da forme più o meno severe di disabilità. Così, i “confinati” (in un letto, in una sedia o comunque in casa) sono appena 24 su 1000 nella classe d’età 65-69, ma salgono a 319 in quella 85 ed oltre; quanti sono affetti da una forma severa di disabilità sono appena 70 nella prima classe e 573/1000 nell’ultima. Chi si occupa di questi anziani non-autosufficienti? In Italia, rispetto agli altri paesi dell’Europa centrale e settentrionale, la percentuale di persone che, nonostante l’età avanzata, continuano a vivere in una famiglia (la propria o quella dei figli) è più elevata. Il che, visto da un’altra angolatura, si traduce in una minore probabilità per le persone anziane di finire in un istituto. Secondo una recente indagine comparata, la proporzione di anziani istituzionalizzati in età superiore ai 70 anni è pari al 3.7% in Finlandia e al 4.2% nel Regno Unito contro appena l’1.1% in Italia. Sopra gli 80 anni, le differenze risultano notevolmente più marcate: 13.5% in Finlandia, 15.6% nel Regno Unito e il 3.4% in Italia.
Nel quadro di questa complessa dinamica, la figura della badante si affaccia come soluzione del problema. Manco a dirlo: una soluzione individuale o, meglio, familiare; comunque sia, in linea con il carattere familistico di questi sistemi. A questo scopo è stata “piegata” anche l’immigrazione. Negli ultimi anni l’immigrazione cambia faccia: fa registrare una crescente domanda di servizi da parte delle famiglie che si ricollega soprattutto al progressivo invecchiamento della popolazione e al consistente numero di persone disabili. Nei decenni ’80 e ’90, i flussi immigratori erano prevalentemente costituiti da maschi; oggi assistiamo ad un crescente aumento di donne immigrate destinate ad essere occupate come lavoratrici domestiche. Nel solo periodo 2002-2004, soprattutto a seguito della regolarizzazione del 2002, il numero di lavoratori domestici stranieri non-UE è più che raddoppiato, passando da 134.000 a oltre 366.000. E se nel 2000 gli stranieri rappresentavano poco più del 51% del totale dei lavoratori domestici iscritti all’Inps, nel 2004 la loro quota ha superato il 74%. Aggiungendo a questi gli irregolari, si stima che la presenza di lavoratori e lavoratrici domestiche sia compresa tra un minimo di 250.000 e un massimo di 900.000. Verosimilmente sono di più, tenuto conto che sarebbero circa 2.300.000 gli anziani non completamente auto-sufficienti di cui solo una piccola percentuale ricoverati in un istituto.
Il nesso con il carattere “familistico” del nostro sistema di welfare è più che evidente. La massiccia presenza di donne immigrate, in particolare nelle grandi aree metropolitane, integra e supplisce il graduale declino delle responsabilità di cura ed assistenza tradizionalmente garantite dalle stesse famiglie. Come dire? Dove queste “non arrivano”, arrivano le badanti. Dove i servizi non consentono di far fronte alle situazioni di bisogno, soccorrono le immigrate. Estranee che subentrano ai familiari, alle figlie e alle mogli in primo luogo, ma comunque donne, donne che sostituiscono altre donne in un’attività di lavoro che si conferma pur sempre come un destino femminile all’interno della nuova divisione sessuale (globale) del lavoro.
L’ipotesi della ricerca è la seguente: senza l’apporto delle badanti, il nostro modello politico-sociale, sostanzialmente imperniato sul lavoro della famiglia, sulle solidarietà familiari, sarebbe da tempo giunto ad un punto di non ritorno; alla necessità di approntare risposte alternative alla cura e all’assistenza inesauribile, flessibile e gratuita fornita dai congiunti e dai familiari ai loro vecchi. L’arrivo delle immigrate, dall’Asia e dal continente latino-americano prima, e più di recente dai paesi dell’Est-Europa, avrebbe dunque funzionato – come dire? – da “tappo” alla crisi del nostro modello di welfare home made. Lo shock della transizione è stato invece evitato, passando dalla realtà tradizionale degli aiuti familiari al surrogato di quegli aiuti trasferiti sulle spalle delle badanti rumene, ucraine, polacche, moldave, filippine e peruviane. Donne per donne. Privato con privato. Informale con informale.
La diffusa presenza del fenomeno delle badanti nel nostro territorio è la dimostrazione che soluzioni alternative a cui fare appello nella cura e nell’assistenza della popolazione anziana non ve ne erano e non ve ne sono. Perciò, le badanti tamponano alla bell’e meglio una situazione altrimenti insostenibile. Ma si tratta di un rimedio “omeopatico”, di un rimedio che agisce in sintonia con la logica del sistema, limitandosi a doppiarla in tutta la sua lunghezza; di un rimedio che rimette nelle mani di quelle stesse famiglie, che da sempre ne hanno sostenuto l’onere, la responsabilità dell’assistenza degli anziani dipendenti, senza mettere minimamente in gioco la responsabilità dello Stato e l’apparato dei servizi. L’intervento delle badanti, la possibilità da parte delle famiglie, anche di quelle di condizioni economiche modeste, di ricorrere ad un costo relativamente esiguo ad un aiuto in grado di supplire in larga misura e con non minore efficacia un compito che altrimenti sarebbe gravato sulle loro spalle, ha in definitiva sortito l’effetto di “bloccare sul nascere” l’avvio di questo processo.
A questo punto si pone una domanda: il ricorso alle badanti è una soluzione efficace e duratura o è destinata ad essere superata in tempi più o meno brevi? La risposta non può che essere negativa: la sua fine è già segnata e dipende dalla stessa natura dei flussi migratori, specie di quelli in arrivo in Italia dai paesi dell’Est europeo. Il raffronto fra l’Italia e la Romania è emblematico. I due paesi hanno una situazione demografica abbastanza simile. La Romania ha una struttura per età appena meno squilibrata di quella italiana, l’identica proporzione di popolazione in età da lavoro e una minore aspettativa media di vita alla nascita. I restanti parametri demografici sono pressoché identici, a cominciare dal tasso di fecondità totale (numero medio di figli per donna). Segno che la demografia rumena è destinata a ricalcare l’esperienza italiana e verosimilmente a ripeterla in misura accentuata, qualora dovesse proseguire al ritmo con cui si verifica oggi la perdita di popolazione prodotta dall’emigrazione verso l’estero. Il punto è che i flussi migratori coinvolgono prevalentemente se non esclusivamente fasce di popolazione in età riproduttiva, le stesse sulle quali ricade la responsabilità di assicurare il ricambio demografico e il sostegno delle generazioni più anziane dal punto di vista economico-previdenziale e assistenziale. Considerato lo scenario della demografia rumena, già ora contraddistinto da un livello di fecondità totale alquanto al di sotto del livello di sostituzione, le conseguenze in termini di alterazione della struttura demografica e produttiva del Paese potrebbero risultare piuttosto pesanti e alla lunga insostenibili: un significativo depauperamento della componente giovanile della popolazione, maschile e femminile, in età produttiva e riproduttiva, con ricadute importanti sul livello di invecchiamento demografico e sulla capacità di sostentamento e assistenza degli anziani, nonché sulla disponibilità di capitale umano indispensabile per lo sviluppo economico.
Di non minor rilievo sono le ricadute per il nostro Paese. Come si è detto, l’Italia sconta da tempo un intenso processo di invecchiamento, imputabile in larga misura al declino della natalità, all’assenza di adeguate politiche di sostegno economico alla formazione della famiglia, alla conciliazione dei tempi familiari e lavorativi delle donne entrate nel mercato del lavoro, e all’insufficiente sviluppo di servizi sociali e assistenziali rivolti alla prima infanzia e agli anziani. Carenze che si sono tradotte in un aumento del fabbisogno da parte delle famiglie di ruoli di supplenza in attività di lavoro domestico, di accudimento dell’infanzia e, in particolare, di assistenza e cura delle persone anziane dipendenti. Il risultato era nelle aspettative e non desta sorpresa. A bocce ferme, nel breve periodo, il gioco è a somma positiva per entrambi i giocatori: famiglie e badanti. Conviene alle famiglie che le assumono, perché consente loro di far fronte a necessità e tensioni non altrimenti risolvibili attraverso il ricorso alla struttura dei servizi pubblici, debole o inesistente, o al mercato privato ufficiale, quasi sempre eccessivamente oneroso; e conviene alle donne immigrate, perché consente loro di trovare un’occupazione, purché sia, in tempi rapidi, anche in assenza del prescritto permesso di soggiorno, senza sopportare i costi di sussistenza ed alloggio che vanno invece a gravare sul ménage familiare dell’assistito, come componente implicita della remunerazione del lavoro svolto.
Osservando le cose nel lungo periodo e a livello macro, la convenienza della soluzione rappresentata dalla presenza delle badanti viene meno; viene meno per entrambi i Paesi, quelli che offrono le badanti e quelli che le domandano, quando non si tramuta addirittura in un risultato negativo. In effetti, l’ampia disponibilità di manodopera a basso costo, di regola fuori contratto, senza oneri aggiuntivi per chi la assume, rischia di rinviare sine die la soluzione di seri problemi e deficit strutturali. Non a caso, la domanda di questa forza lavoro proviene dalle fasce sociali meno tutelate dall’attuale sistema dei servizi e in alcuni casi dalle più deboli, che non si possono permettere di ricorrere al mercato legale della collaborazione domestica contrattualizzata. Il costo che l’Italia rischia di pagare (con gli interessi) è quello di un mancato adeguamento del proprio apparato di servizi sociali; un’ipoteca: che se nell’immediato comporta apprezzabili vantaggi personali e familiari è destinata alla lunga a produrre ricadute negative, sia in termini di un ulteriore rallentamento del processo di modernizzazione economico-sociale, sia di un ulteriore rinvio di quelle misure in grado di contrastare il declino delle nascite e l’invecchiamento demografico e di favorire la crescita dei tassi di attività femminile.
Parte seconda: le storie di vita
Qui si lavora per vivere, là lavori ma non si può vivere (A., Perù, 30 anni)
Lo strumento adoperato nella raccolta delle informazioni è l’intervista orale registrata (una prassi che, come fa osservare giustamente Sandro Portelli, comporta “inevitabili effetti di riduzione, manipolazione o comunque trasformazione”), rivolta ad un campione di donne che si trovano a svolgere presso una famiglia l’attività di badante. Il territorio, come detto, è la città di Roma.
Un aspetto importante che distingue le une dalle altre è l’evasività delle risposte. Pur accettando di collaborare, l’intervistata può di fatto svuotare la risposta di contenuto banalizzandola fino a renderla inutilizzabile ai fini dell’indagine.
Il fatto che le badanti siano “donne globali” (come le definiscono Ehrenreich e Hochschild), che provengono da paesi fortemente ancorati alla tradizione e che emigrano spesso perché spinte dal bisogno economico, non contribuisce ad uscire da questo vicolo cieco. Sorprende che non se ne rendano conto: quelle che hanno denunciato un contratto di lavoro violato in più punti si aggrappano unicamente a motivi economici. In altre parole, non sarebbero pagate per quel che vale il loro lavoro; il che significa, che se lo fossero, se le prestazioni extra e le mansioni superflue venissero adeguatamente compensate, il problema sarebbe automaticamente risolto.
Lei [l’assistita] non si rendeva conto, pensava che io stessi in casa sua perché avevo bisogno di un posto dove poter stare, lei pensava che a me stesse dando la carità, un letto, da mangiare. Quando il nipote mi pagava lo stipendio, lei chiedeva perché mi stesse pagando dato che io non le facevo niente…(B., Romania, 20 anni).
L’inserimento della badante nella casa dell’anziano coincide con una ristrutturazione mentale dell’immaginario familiare dell’assistito. A quel punto, famiglia e badante si fondono, danno luogo ad un’identità. La dipendenza è duplice, come in ogni rapporto di lavoro, ma con una differenza fondamentale: lo scopo della relazione è di una natura così intima, così continuativa, così totalizzante, da non consentire vie di fuga né all’uno né all’altra.
… l’Italia è piena di rumeni, di indiani e di altri immigrati che accettano di lavorare anche a prezzi bassissimi, ma se noi facessimo un giorno sciopero, tutte le badanti insieme, minacciando di non tornare più, ci sarebbe il terrore. Ci sarebbe paura specialmente per le famiglie più ricche, per quelle che possono permettersela una badante… ed è a loro che fa comodo avere le badanti. Dato che siamo così importanti per il paese perchè non ci pagano adeguatamente e ci rispettano nelle nostre libertà, invece ci sfruttano perché la situazione è comoda così… (V., Romania, 50 anni)