Rachele

Rachele sedeva sulla sedia bassa davanti alla porta di casa: cuciva. Aveva imparato da bambina, dalle suore, insieme al ricamo, alla maglia e all’uncinetto. Il cesto con l’occorrente era appoggiato sul gradino alto: forbici, aghi, spilli, ditale, metro e rocchette variopinte.

Un vicino di casa, a cui era di recente mancata la moglie, le portava spesso calzoni da rammendare, camice da riparare, bottoni da attaccare, cerniere da cambiare. Lei lo faceva volentieri, gli dava una mano. Le era sempre piaciuto cucire e lavorare a maglia. Quando i figli erano bambini confezionava per loro braghette e camicine. Recuperava la lana dei loro maglioni diventati corti e stretti, e ne faceva di nuovi accostando improbabili colori. Nulla andava perduto, tutto si recuperava.

Con gli anni la vista si era indebolita anche se nessuno lo notava. Le sue mani esperte, leggere come farfalle, volavano sul tessuto come se nulla fosse cambiato. Lei invece se n’era accorta, doveva usare l’infila ago.

I capelli da sempre tirati e raccolti in una crocchia bassa sulla nuca, da neri si erano fatti mélange con striature bianche e nere. Erano diventati anche più sottili e radi, eppure, quando li scioglieva per lavarli, dopo averglieli asciugati con il phon, la nipote le diceva: “Nonna sei bellissima con i capelli sciolti, sembri una regina, perché non li tieni sempre così?”

Rachele scuoteva la testa, corrugava la fronte, congiungeva le mani e chiamava la nipote col nomignolo che le aveva dato da bambina: “Mostricio, alla mia età i capelli sciolti sulle spalle, non li portavo nemmeno a vent’anni” e intanto le sue mani esperte già intrecciavano i capelli dietro la nuca.

Marziana Monfardini

scritto nel dicembre del 2022 – diritti riservati